Stati all’interno di Stati, che a loro volta contengono Stati

La maggior parte di noi ha sentito parlare di enclavi ed exclavi. Si tratta di territori di uno Stato completamente circondati dal territorio di un altro Stato e che vengono chiamati enclavi o exclavi a seconda del punto di osservazione. Per lo “Stato contenitore” sono enclavi, per lo Stato il cui territorio è contenuto presso un altro Stato sono exclavi. Così, per noi italiani, Campione d’Italia è un’exclave italiana in territorio svizzero, mentre per gli svizzeri è un’enclave italiana nel loro territorio. Altri esempi noti sono quelli di Ceuta e Melilla, exclavi/enclavi spagnole in Marocco.

Vi sono poi casi di enclavi, che non sono allo stesso tempo anche exclavi. Questo si verifica quando l’intero territorio di un dato Stato sovrano è contenuto all’interno di un altro Stato e non vi è quindi un territorio principale da cui il territorio satellite dipenda. Pertanto non vi è una “madrepatria” che possa ritenerlo una propria exclave, ma solo un territorio straniero che lo consideri una propria enclave. Due di queste tre eccezioni si trovano in Italia e sono Città del Vaticano e San Marino. La terza è il Lesotho, stato sovrano completamente circondato da territorio Sudafricano. Diversi, invece, sono i casi di Andorra e Liechtenstein, poiché i due Stati non sono contenuti nel territorio di un altro Stato sovrano, ma schiacciati tra due Stati (rispettivamente Francia/Spagna e Svizzera/Austria), il che fa di loro stati piccolissimi, non enclavi. Particolarissimo il caso del Principato di Monaco, che non può essere assimilato a nessuno degli esempi riportati sopra, poiché non è né interamente circondato da uno Stato straniero (poiché si affaccia sul mare), né stretto tra due o più Stati, .

Ci sono poi situazioni che mettono a dura prova la nostra capacità di comprensione e che richiedono l’ausilio di una mappa. Sono i pochi ma intricatissimi casi di exclavi che contengono enclavi, come quello di Madha, exclave dell’Oman presso gli Emirati Arabi al cui interno sussiste un’enclave degli Emirati. Altro esempio è quello della città di Baarle Hertog, exclave belga in territorio Olandese, che non si presenta come blocco unico ma come una  ventina di lotti di territorio belga sparsi in territorio olandese, alcuni dei quali al loro interno contengono 7 enclavi olandesi. Ciò che rende il caso belga-olandese unico è che, verificandosi in un contesto urbano, si assiste a situazioni limite quali persone il cui Paese di residenza varia in base a dove è collocato il portone del palazzo in cui vivono o ristoranti attraversati dal confine, in cui una sala chiude un’ora prima dell’altra a causa dei differenti regolamenti sui pubblici esercizi in vigore nei rispettivi Paesi.

 

Infine, non si può non menzionare il caso unico al mondo di Dahala Khagrabari, un’enclave di un’enclave di un’enclave. Si trattava di una enclave indiana grande come un campo da calcio contenuta in una enclave del Bangladesh, che sorge all’interno di una enclave indiana in territorio del Bangladesh. Fortunatamente l’anomalia è stata sanata nel 2015 quando l’india ha acconsentito che la sua exclave diventasse territorio del Bangladesh.

 

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Ascensore per lo spazio

Tra i progetti di ingegneria spaziale non ancora realizzati, uno dei più affascinanti è certamente l’ascensore spaziale*. Affascinante perché l’idea è relativamente semplice, ma al contempo rivoluzionaria, perché ridurrebbe i costi delle missioni di trasporto di materiali e sistemi nello spazio di 50 volte (rispetto a quelli odierni basati sulla propulsione a razzo).

L’ascensore spaziale, teorizzato per la prima volta dallo scienziato russo Ciolkovskij (padre indiscusso della missilistica), consiste degli stessi elementi di un ascensore normale: un cavo, un contrappeso e una cabina. Diversamente da un ascensore normale, però, il cavo dovrebbe essere lungo almeno 36.000 km, il contrappeso trovarsi all’estremità superiore del cavo (l’altra estremità ancorata a terra) e la cabina non essere trainata dal cavo, ma scorrere lungo esso. In pratica, il contrappeso, situato oltre l’orbita geostazionaria (1), farebbe sì che il cavo rimanga naturalmente teso poiché, a quella altitudine la forza centrifuga è superiore alla forza di gravità. Perché ciò sia vero, però, il cavo dovrebbe essere ancorato sulla linea dell’Equatore, cosa che gli assicurerebbe la maggior forza centrifuga possibile. La velocità angolare raggiunta alla sommità del cavo consentirebbe ai carichi di sfuggire all’attrazione terrestre ed essere “fiondati” fino a Saturno con un dispendio di energia costituito solo da quantitativo necessario per far arrampicare la cabina sul cavo.

Se da un punto di vista concettuale i fondamenti di questa tecnologia sono ben definiti e condivisi da tutti gli ingegneri spaziali più eminenti, il progetto è tuttora fermo alla fase di studio di fattibilità per diversi motivi, quasi tutti superabili, tranne uno: il materiale del cavo. Allo stato attuale non esiste un materiale che garantisca una resistenza alla trazione sufficientemente elevata.  Perché l’ascensore sia in sicurezza, servirebbe un cavo in grado di resistere ad una trazione di più di 100 GPa (gigapascal). Per fare un esempio, i cavi in acciaio che vediamo impiegati in molte strutture civili hanno una resistenza di 1GPa. Il kevlar (il materiale con cui si fanno i giubbetti antiproiettile) ha una resistenza di 5GPa. Gli unici materiali che, a livello teorico, raggiungono quelle prestazioni sono i nanotubi di carbonio. Il problema è che un solo atomo fuori posto in una struttura di nanotubi di migliaia di chilometri farebbe scendere la resistenza a 50GPa, con esiti catastrofici. E dal momento che, ad oggi, non è possibile produrre nanotubi di carbonio senza la minima imperfezione, l’ascensore spaziale dovrà attendere…

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Ciolkovskij pubblicò il trattato “L’esplorazione dello spazio cosmico per mezzo di motori a reazione” nel 1903. L’opera veniva ancora studiata dagli scienziati americani dediti al programma spaziale nel decennio 1950-1960.

 

(1) orbita circolare ad un’altitudine tale per cui un satellite compie la rivoluzione in un giorno, apparendo quindi fermo rispetto ad un osservatore sulla Terra.

 

*Questo articolo, come tutto ciò che viene pubblicato su amorvacui.it, non ha alcuna pretesa di divulgazione scientifica, ma solo l’obiettivo di fornire, attraverso semplificazioni strumentali, un invito alla riflessione e all’approfondimento presso fonti che abbiano, al contrario, piena dignità scientifica.

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Chiedeteci tutto, ma non di fare le scale

Non è facile dire chi abbia inventato l’ascensore. Di macchinari per il trasporto in verticale delle persone vi è traccia già nelle cronache dell’antichità classica, mentre, tra gli esempi giunti fino a noi, spiccano quelli ben più recenti delle regge Settecentesche come Versailles, Caserta e Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo.

Per vedere in funzione un ascensore di tipo moderno, però, bisogna aspettare il 1852 quando Elisha Otis brevetta il “safety elevator”. Ascensore che verrà installato a New York nel 1857 all’interno del Haughwout Building, nella zona che oggi chiamiamo SoHo.

Quando pensiamo all’ascensore e alla sua diffusione è normale che ci vengano in mente immagini di città sviluppate in verticale o di Paesi che abbiano avuto una forte crescita urbanistica nel secondo Novecento.

Stupisce, pertanto, apprendere che il Paese con il maggior numero di ascensori pro capite sia la Spagna, seguita dall’Italia, con concentrazioni che sono rispettivamente 6 e 5 volte superiori a quelle degli Stati Uniti. Ciò che sorprende ancor di più è che il margine di distacco tra il duo Spagna-Italia e gli altri Paesi sia talmente ampio che, se si passa dal dato pro capite a quello in valore assoluto, solo la Cina riesce a superare i due paesi mediterranei.

A mente fredda, si capisce che le ragioni di questo primato siano da ricondurre al fatto che Spagna e Italia abbiano un tessuto urbanistico ed architettonico simile, fatto di una manciata di grandi città con prevalenza di palazzi in media di 5 piani e tante realtà di provincia caratterizzate da palazzine un po’ più basse, ma costruite nella seconda metà del ‘900 e quindi nate con l’ascensore. A questo si aggiunge che, rispetto ad altri Paesi, la percentuale di persone che sono proprietarie di casa in Spagna ed Italia è elevatissima (attorno all’80%), mentre altrove il paradigma è quello di pochi grandi proprietari, che possiedono molti immobili, spesso antichi, che li affittano e che non hanno interesse ad investire in un ascensore.

Negli Stati Uniti, invece, la stragrande maggioranza delle persone non vive nei grattacieli di New York, ma nelle villette a due piani costruite in serie, dove nessuno ha mai sentito la necessità di questa amenity.

Attualmente non è stata ancora stilata una classifica del numero di piani coperti da ascensore per Paese, ma non è difficile immaginare che quella prospettiva di osservazione potrebbe sconvolgere le classifiche proiettando al vertice Cina, Giappone, Stati Uniti anche nel dato pro capite (i 6 ascensori di un solo grattacielo di 50 piani totalizzerebbero un punteggio che, per essere eguagliato in Spagna o in Italia, richiederebbe l’impiego di 60 palazzi di 5 piani)(1).

Se diamo, infine, uno sguardo ai produttori di ascensori vediamo che il settore è piuttosto concentrato nelle mani di 5 giganti che detengono il 65% del mercato e tra questi non vi è neanche un’azienda italiana o spagnola, ma una americana, giapponese, una svizzera (con chairman italiano), una finlandese, una tedesca.

 

(1) Nella sola New York ci sono 86 grattacieli che hanno più di 50 piani.

 

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I culti del Cargo

Sono culti che si diffondono tra la fine dell’Ottocento e la Seconda Guerra Mondiale in Melanesia, quando le popolazioni del luogo vengono in contatto con le potenze del Terzo Colonialismo prima, e con il contingente Giapponese e Americano poi.

Gli elementi fondanti di questi culti, infatti, sono: 1) l’incontro tra una civiltà avanzata e una, fino a quel momento semi-isolata, che non conosce la tecnologia moderna; 2) un’improvvisa apparizione di beni materiali, fino ad allora sconosciuti presso questa seconda civiltà; 3) personalità carismatiche del luogo che forniscono ai loro conterranei un’interpretazione mistica di questa singolare combinazione di eventi.

Tipicamente queste popolazioni sono portate a credere che tali beni (vestiti, cibo in scatola, tende da campeggio, torce elettriche, radio) letteralmente piovuti dal cielo sulle loro isole, ma ai quali non hanno accesso diretto, perché utilizzati dai visitatori, fossero inizialmente destinati a loro per volere degli dèi. Il fatto che non siano al momento nella loro disponibilità si spiegherebbe con la furbizia dei forestieri, che le avrebbero intercettate, prendendone temporaneamente il controllo.

Le manifestazioni più eclatanti di tali culti emergono però sistematicamente quando i visitatori abbandonano quei luoghi portando via la maggior parte dei beni ostentati e desiderati dalla civiltà autoctona (come il ritiro del contingente americano da quelle isole scelte come basi logistiche per le operazioni nel Pacifico alla fine della Seconda Guerra Mondiale).

In quel momento emergono figure carismatiche locali che si ergono a profeti e canalizzano questi bisogni di oggetti materiali rimasti insoddisfatti.

Tipicamente questi capi-spirituali predicono il ritorno delle risorse in un futuro non meglio specificato e, questa volta, per loro esclusiva fruizione. Nell’attesa che l’evento si verifichi, tengono impegnati i fedeli con riti che riproducono attività viste compiere agli stranieri, nella convinzione che potranno propiziare un ritorno dei cargo. Così i nativi organizzano marce e parate militari in cui indossano uniformi da loro create per somigliare ai militari americani (o si dipingono i gradi militari sulla pelle), brandiscono bastoni di legno che dovrebbero rappresentare i fucili che hanno visto questi ultimi imbracciare.

Parallelamente, ci si tiene pronti ad accogliere nuove spedizioni mantenendo pulite le piste di atterraggio di giorno e illuminandole con torce di notte. Vengono anche costruite torri di controllo all’interno delle quali i figuranti indossano cuffie di legno da loro create e mimano non meglio precisate attività di coordinamento.

Non è tuttora chiaro se questi capi spirituali fossero sinceri o si siano avvantaggiati delle circostanze per accrescere il proprio prestigio personale.

 

 

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Lo studio di questi culti ha affascinato un gran numero di studiosi e ha travalicato i confini dell’antropologia, tanto che il termine “Cargo Cult Programming” si definisce la pratica, in ambito di programmazione software, di utilizzare frammenti di codice preso da altre fonti e copiarli senza averne compreso il significato e senza la certezza che porti beneficio al nuovo programma che si sta scrivendo.

 

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La teoria della Terra Cava

Quella della Terra Cava, oggi confinata al rango di pseudoscienza, ha annoverato tra i propri sostenitori scienziati e personalità di spicco in tutte le epoche che la sua narrazione fin da tempi antichissimi ha attraversato.

Secondo tale teoria la Terra non sarebbe uno sferoide massiccio formato da una crosta esterna e da una sequenza di mantelli e nuclei concentrici sempre più caldi, ma un guscio spesso qualche centinaio di chilometri all’interno del quale vi sarebbero altri gusci vuoti concentrici separati da atmosfere e ruotanti a velocità differenti attorno ad un unico nocciolo (Edmund Halley, 1692).

A integrazione di tale teoria, diversi esploratori, alti ufficiali di marina e uomini politici, fino agli inizi del Novecento, hanno sostenuto che gli strati interni fossero abitati e che a questo intramondo si potesse accedere attraverso dei passaggi in corrispondenza dei Poli. Nell’Ottocento diverse spedizioni furono organizzate per verificare queste ipotesi ma nessun resoconto, che non fosse un’opera di fantascienza, ne ha mai fornito le prove.

Cionondimeno, forte di alcune evidenze, scientificamente confutabili, ma di sicuro impatto, come la circostanza che gli iceberg in Artide e Antartide, pur essendo immersi nel mare, siano fatti di acqua dolce (così come i presunti fiumi dell’interno della Terra che li alimentano), o che nei pressi dei Poli vi sia la presenza di pollini di fiori o cenere vulcanica (che fuoriuscirebbero dai portali che collegano i due mondi), la teoria ha resistito a livello di credenza popolare per tutto il Novecento. Non solo, ma ha anche ispirato un gran numero di scrittori di fantascienza e raccolto un discreta quantità di seguaci, soprattutto tra i sostenitori delle teorie di complotto.

Lo stesso Terzo Reich, dei cui gerarchi è nota la passione per l’occulto, finanziò diverse spedizioni alla ricerca di questi passaggi, non tanto in prossimità dei Poli quanto sull’Himalaya e sulle Ande. L’obiettivo era quello di verificare una delle varianti della teoria secondo la quale i veri terresti vivrebbero all’interno, mentre sulla crosta esterna sarebbero confinate razze mutate.

Analogamente, secondo interpreti moderni dello stesso principio, se la normalità è vivere all’interno dei pianeti, si spiegherebbe facilmente per quale motivo esplorazioni spaziali non abbiano mai trovato evidenze di vita su altri pianeti.

Per completezza merita infine di essere menzionata una teoria solo apparentemente antitetica a quella della Terra Cava, quella della Terra Concava. Secondo tale teoria la Terra non sarebbe un globo massiccio al cui esterno si svilupperebbe la vita, ma un guscio vuoto che la ospiterebbe sulla crosta interna e al cui centro insisterebbe l’intero universo. A ben riflettere ciò eleverebbe gli umani di Terra Concava al rango degli esseri superiori descritti dai teorici della Terra Cava, da qui la non antiteticità con la prima teoria. Non è questo il luogo per un suo approfondimento, ma la Teoria della Terra Concava in realtà ha dei fondamenti di fisica teorica (come la Sfera di Dyson), anche apprezzabili che hanno portato a interessanti dibattiti di scuola, poi conclusisi dinanzi all’evidenza empirica delle esplorazioni spaziali.

 

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Le lingue del mondo

Che il cinese, nelle sue sette varietà, sia la lingua più parlata al mondo (1200M) non suonerà certo come una notizia. Così come non stupisce che la seconda lingua più parlata sia lo spagnolo (400M) o l’inglese (360M+500M), a seconda che si considerino solo i madrelingua, o il numero totale dei parlanti.

Più interessanti invece sono altre statistiche sulla diffusione delle lingue nel mondo.

Per esempio, potrà sorprendere che, su 6000 lingue parlate nei 198 Paesi riconosciuti dall’ONU, l’Italiano risulti essere la ventesima più diffusa, con 64 milioni di parlanti.

Mentre la multiculturalità di Londra è testimoniata dal fatto che vi si possano reperire persone che parlano 300 idiomi differenti.

Così come apparirà paradossale che in un continente come quello dell’Oceania, il cui numero di abitanti è estremamente esiguo (41M), si parlino più di 500 lingue, alcune delle quali da un numero veramente ridotto di persone. Si pensi solo che, ad esclusione dell’inglese, lingua ufficiale nelle tre isole maggiori (Australia, Nuova Zelanda, Papua N.G.), la lingua più parlata è il samoano, idioma conosciuto da 370.000 persone, più o meno gli abitanti di un medio capoluogo di regione italiano.

Vi sono poi lingue in via di estinzione parlate ormai da una manciata di soggetti.  Ad esempio di persone che parlino il Taushiro, idioma di una zona piuttosto inaccessibile del Perù che non ha subito nel corso dei secoli contaminazioni culturali, ne è rimasta solo una. Stessa sorte tocca al Kaixana, lingua autoctona del Brasile. Al confronto va molto meglio al Dumi, lingua Nepalese del distretto sud-orientale del Khotang che conoscono solo otto abitanti di quei luoghi impervi.

Della tutela e della sopravvivenza di queste lingue rare si occupa, tra le altre cose l’UNESCO, che dal 1996 ha creato un Atlante delle lingue rare con lo scopo di censirle e di intervenire nelle situazioni più critiche, con opere di codifica volte alla conservazione nel tempo di tali idiomi destinati a estinguersi.

In Italia ci sono 4 lingue ad elevato rischio di estinzione: il Titsch (una variante della lingua Walser) parlata in Valle d’Aosta orientale e nella Val d’Ossola in Piemonte, il Croato Molisano in Molise, il Guardiolo e il Griko in Calabria.

Per chi volesse divertirsi a condurre qualche ricerca personale, si allega di seguito il link all’Atlante.

Atlante Lingue a Rischio Estinzione UNESCO

Al di là degli aspetti quantitativi può interessare sapere che, tra le lingue parlate da più di 100.000 persone, quella con meno punti di contatto con altre lingue e quindi più difficile da apprendere per gli stranieri è il basco, mentre per un bambino l’apprendimento della lingua madre parlata presenta uguale livello di difficoltà/facilità indipendentemente dalla sua provenienza.

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La pena di morte in Italia e dintorni

In Italia la pena di morte è stata abolita del tutto solo nel recente 1994.

Infatti, la Costituzione (entrata in vigore il 1 Gennaio 1948), che l’abrogò “per tutti i reati comuni e militari in tempo di pace”, la lasciò in essere nel codice penale militare di guerra, finché nel 1994 non venne sostituita anche in esso dalla pena dell’ergastolo.

Le ultime esecuzioni, tanto di civili quanto di militari, avvennero di fatto nel lontano 4 Marzo del 1947.

Nella Città del Vaticano la pena di morte venne introdotta coi Patti Lateranensi del 1929 per il solo reato di tentato omicidio del Pontefice, recependo la norma del Codice Penale del Regno d’Italia varata nel 1926 che prevedeva la pena di morte per il tentato omicidio del Re. Regno d’Italia che contestualmente sancì l’equiparazione del Pontefice al Re sul territorio nazionale limitatamente a quella fattispecie di reato. Fu poi cancellata dagli Statuti Vaticani da Paolo VI nel 1969 ma, per una sua rimozione dalla Legge Fondamentale del Vaticano, occorre attendere il motu proprio del 2001 di Giovanni Paolo II.

Non si può non notare come ad abrogare la pena capitale siano stati proprio gli unici due Papi ad aver subìto un attentato nell’era moderna (1).

(1) Paolo VI nel 1970 a Manila, Filippine e Giovanni Paolo II nel 1981 in Vaticano.

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Tra le fattispecie di reato più singolari per le quali uno Stato abbia previsto nel corso della sua storia la pena capitale c’è sicuramente quella applicata in Giappone fino al 1853: l’infrazione del divieto di espatrio a cui erano soggetti i suoi cittadini.

Uno shuttle sull’Isola di Pasqua?

L’aeroporto dell’Isola di Pasqua (in spagnolo Isla de Pascua, in lingua nativa Rapa Nui), conosciuto come Mataveri International Airport (IATA Code: IPC), fu inserito dalla NASA nella Space Shuttle TAL sites list (TAL: Transoceanic Abort Landing), per i lanci in orbita polare dalla base di Vanderberg, California.

Il Transoceanic Abort Landing è una delle possibili modalità di atterraggio non programmato per cancellazione di una missione a lancio avvenuto, insieme al Return to Launch Site (RTLS), all’Abort Once Around (AOA) e all’Abort To Orbit (ATO). Tipicamente, un TAL può essere ordinato quando non è possibile effettuare un RTLS e deve avvenire tra i due minuti e trenta secondi (T+2:30 minutes) e i sette minuti e trenta secondi dopo il lancio (T+7:30 minutes), cioé prima del distacco del razzo primario (Main Engine Cutoff, MECO), che avviene di norma dopo esattamente otto minuti e trenta secondi (T+8:30 minutes).

Occorre precisare che l’utilizzo dell’aeroporto di Mataveri per tale circostanza non sia mai avvenuto e che la stessa eventualità del suo impiego a questo scopo si sia poi dimostrata meramente teorica, in quanto dalla torre di lancio della base di Vanderberg in California (Space Launch Complex 6) non decollò mai alcuno Space Shuttle, nonostante un lancio in orbita polare del Discovery dalla base di Vanderberg fosse stato programmato per l’Ottobre 1986. Purtroppo però, la tragedia del Challenger, avvenuta pochi mesi prima nel Gennaio del 1986, portò, da subito, al temporaneo congelamento delle missioni e, in seguito, alla concentrazione degli investimenti nel complesso del Kennedy Space Center di Merrit Island, Florida (Space Launch Complex 39).

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Il computer di bordo del modulo di comando (CM) e del modulo lunare (LM) dell’Apollo 11, detto Apollo Guidance Computer, che consentì agli astronauti americani di allunare e di fare ritorno sulla Terra, aveva una potenza di calcolo pari a quella di due Commodore 64 ed un memoria RAM pari ad un trentesimo di quella di un C-64.

 

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Una guest actress speciale per Magnum P.I.

Tra le 162 puntate di Magnum P.I., la fortunata serie televisiva di Donald P. Belisario andata in onda in prima visione sulla CBS tra il 1980 e il 1988, occupa sicuramente un posto di riguardo nel cuore degli appassionati “Echoes of the mind”, la doppia puntata di esordio della quinta stagione.

Trasmesse nell’autunno del 1984 queste due puntate sono diventate oggetto di culto non tanto all’epoca della prima visione quanto negli anni a venire per diverse ragioni.

Innanzitutto la colonna sonora della puntata si aprì con la musica dei titoli di coda di Blade Runner, l’indimenticato capolavoro di Ridley Scott del 1982, eseguita dalla New American Orchestra.

In secondo luogo, la guest star dei due episodi è la ventiseienne, allora semi-sconosciuta, Sharon Stone.

Infine, a rendere ancor più memorabile la doppia puntata fu la ricchezza della trama, impreziosita dall’interpetazione di un doppio ruolo tanto da parte di Sharon Stone, quanto da parte di John Hillerman (Higgins).

Sharon Stone interpreta due sorelle gemelle dai caratteri molto diversi, Diane e Deirdre Dupres, che si scoprono poi essere una sola donna affetta da sdoppiamento di personalità in conseguenza di un trauma infantile originato dalla perdita della sorella.

John Hillerman, invece, interpreta contemporaneamente Higghins, suo consueto personaggio, e un suo fratello illegittimo divenuto ministro di culto.

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La scena d’amore nella doccia girata da Tom Selleck e Sharon Stone è stata la seconda scena di sesso esplicito all’interno di una doccia andata in onda in prima serata nella storia della TV americana, dopo quella che ebbe come protagonisti Mark Harmon e Nancy Stafford in una puntata della serie St. Elsewhere andata in onda nel Novembre 1983

 

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American Psycho: una storia travagliata

Fin da prima della sua pubblicazione, il libro American Psycho di Bret Easton Ellis fece storcere il naso a diversi editori a cui fu proposto, soprattutto per via dell’alto tasso di violenza in esso contenuto.

La Simon & Schuster, che in un primo momento sembrava dovesse pubblicarlo, all’ultimo momento si ritirò ufficialmente per cosiddette divergenze estetiche.

Oltre alle riserve degli addetti ai lavori, il libro suscitò le proteste di numerosi attivisti, quali la femminista Gloria Steinem, che si oppose alla sua pubblicazione.

Finalmente American Psycho fu pubblicato in edizione economica nel 1991 da Vintage Books di New York, una divisione della Random House, a sua volta casa editrice appartenente al Gruppo Bertelsmann.

Una volta uscito nelle librerie, seppur con notevoli restrizioni in molti paesi, Ellis ricevette numerose minacce di morte e lettere di protesta provenienti da tutto il mondo.

La trasposizione cinematografica del libro fu altrettanto travagliata, a causa di divergenze di opinioni tra autore, produttori e registi avvicendatisi nella realizzazione del film.

Inizialmente il film avrebbe dovuto essere diretto da Stuart Gordon (Dolls, 1987), realizzato in bianco e nero e la parte del protagonista affidata a Johnny Depp. Il progetto fu però accantonato perché Gordon voleva realizzare un film il più fedele possibile al libro e questo si sarebbe inevitabilmente tradotto in una censura certa e totale. Successivamente il progetto venne affidato a David Cronenberg, che voleva Brad Pitt nel ruolo di Patrick Bateman, ma non se ne fece nulla. Quando poi i diritti furono definitivamente acquisiti dalla Lions Gate, per scrivere e dirigere il film fu ingaggiata Mary Harron. La Harron, dopo aver preso in considerazione diversi attori per la parte del protagonista, tra i quali l’attore-musicista Jared Leto, decise infine di affidarla a Christian Bale. In seguito, i produttori, probabilmente preoccupati dal basso impatto del nome di Bale, allora semi-sconosciuto, tentarono di convincerla a prendere in considerazione Edward Norton. Tuttavia ella fu irremovibile e si piegò solo ad accettare il compromesso di arricchire il cast con Willem Dafoe nel ruolo del Detective Kimball e Reese Witherspoon in quello di Evelyn. I produttori però continuarono a nutrire dubbi sull’opportunità di far interpetare Bateman a Bale e dissero alla Harron che avrebbero fatto un’offerta a Di Caprio. In risposta ella si ritirò dal progetto e fu così sostituita da Oliver Stone alla regia e Matt Markwalder alla sceneggiatura. Stone, su suggerimento della produzione, prese in considerazione James Woods, Cameron Diaz, Elizabeth Berkeley e Chloë Sevigny rispettivamente per i ruoli di Detective Kimball, Evelyn, Courtney e Jean, mentre Jared Leto tornò in gioco per la parte di Paul Allen. Quando finalmente tutto sembrava pronto, Di Caprio abbandonò il progetto per girare “The Beach”. Questo circostanza, unitamente alla contestuale emersione di problemi di budget, indussero la Lions Gate a riconsiderare più economica Harron, che accettò e ripristinò il cast inizialmente da lei scelto. Le uniche concessioni furono la conferma di Sevigny e Leto nei ruoli di Jean e Allen.

Altri ostacoli che il film dovette superare furono quelli rappresentati dal rischio di subire azioni legali da parte di alcune delle società proprietarie dei marchi di moda, ai quali si fa ampio riferimento nel libro. Queste infatti dimostrarono di non gradire l’associazione dei propri prodotti e loghi all’immagine del sadico assassino Patrick Bateman. Dopo estenuanti negoziazioni, alcuni marchi accettarono soluzioni di compromesso, mentre altri furono irremovibili. Cerruti consentì a Bateman di vestire i suoi abiti ma non nelle scene in cui questi trucidava qualcuno, Rolex lasciò indossare i propri orologi a tutti i personaggi, tranne che a Bateman, mentre Comme Des Garçons si rifiutò di far adibire uno dei suoi borsoni al trasporto del cadavere di Paul Allen.

Ellis racconta che prima di accettare la parte Bale volle incontrarlo per ricevere la benedizione dello scrittore, clausola che, a detta di quest’ultimo, il suo personale codice professionale gli imponeva di rispettare.

A Ellis la cosa non andava particolarmente a genio ma, conoscendo l’eccentricità degli attori e, per non fare un torto alla produzione, si convinse ad incontrarlo in un ristorante di Los Angeles. La sera dell’appuntamento Ellis arrivò al ristorante per primo e decise quindi di attendere al bancone del bar per ingannare l’attesa scolandosi un paio di drink. Mentre consumava il primo, si sentì picchiettare sulla spalla e, girandosi, vide Christian Bale perfettamente vestito da Patrick Bateman (con tanto di cuffie del walkman originale anni ’80). L’attore si presentò come Bateman e per quindici minuti interpretò il personaggio finché Ellis, capì che l’unico modo per mettere fine alla messinscena era quello di manifestare all’attore la propria approvazione per la superba perfomance messa in atto.

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Phil Collins, alle cui gesta musicali viene dato ampio spazio, sia nel libro che nel film, ha recentemente dichiarato di non aver mai letto il libro, ma di aver accettato di guardare il film diversi anni dopo la sua uscita, non tanto per curiosità, quanto per accontentare alcuni amici appassionati del soggetto. Il film, da lui definito “buffo”, non sembra essergli piaciuto particolarmente

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La femminista Gloria Steinem è anche la matrigna di Christian Bale. Non è chiaro se questa sia una coincidenza o un dispetto che Bale ha voluto fare alla matrigna.

 

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La gavetta di Kevin Costner

Il film il Grande Freddo (The Big Chill, 1983), capolavoro della cinematografia diretto da Lawrence Kasdan, comincia con la vestizione del cadavere di un suicida, il cui funerale sarà l’occasione per un gruppo di compagni di college di ritrovarsi dopo quindici anni e far venire alla luce le contraddizioni tra ideali giovanili e compromessi dell’età adulta.

La parte del cadavere è interpretata da Kevin Costner, che non viene mai inquadrato in volto e che non comparirà in nessun’altra scena del film.